Israele, Iran e la guerra per la sopravvivenza: perché l’attacco non è un’aggressione ma una risposta strategica

Nel cuore della notte tra il 12 e il 13 giugno, Israele ha colpito nuovamente obiettivi militari in Iran, tra cui basi missilistiche e centri di comando delle Guardie della rivoluzione. A prima vista, può sembrare un atto unilaterale di forza. Ma ridurre l’azione israeliana a un’aggressione a freddo significa ignorare — o rimuovere — il contesto strategico più ampio in cui questa escalation si inserisce. Una cornice in cui la parola chiave non è “espansione”, ma sopravvivenza.
L’accerchiamento strategico e la minaccia costante
Israele non si confronta solo con l’Iran sul piano diretto, ma è circondato da una rete capillare di gruppi armati che, negli ultimi anni, hanno alzato sempre più il livello dello scontro. Si tratta di una guerra per procura che Teheran combatte lungo tutto l’arco mediorientale: a nord Hezbollah, a sud Hamas e la Jihad islamica, a est le milizie sciite in Iraq e Siria, a sud-ovest gli Houthi dallo Yemen. Tutti questi attori ricevono finanziamenti, armi e addestramento direttamente o indirettamente da Teheran.
Il solo Hezbollah dispone oggi di oltre 150.000 razzi puntati su Israele dal Libano. I cittadini israeliani che vivono nel nord del Paese si trovano da mesi sotto allarme costante, costretti a rifugiarsi nei bunker e a convivere con l’incertezza quotidiana. Da Gaza, nel sud, gli attacchi missilistici si ripetono con regolarità crescente, mentre il Mar Rosso è divenuto un nuovo fronte di scontro con i droni lanciati dagli Houthi.
Questa rete coordinata di minacce non è più una possibilità teorica: è una pressione quotidiana e permanente, che non riguarda soltanto la sicurezza nazionale ma anche la vita materiale delle persone, le scuole, le città, i trasporti, il lavoro.
Il passaggio da difesa a deterrenza attiva
In questo contesto, l’azione israeliana su obiettivi strategici iraniani non può essere letta come una rottura dell’equilibrio, ma come una risposta a una strategia di accerchiamento che si è progressivamente intensificata. Una sorta di autodifesa avanzata, costruita sull’assunto che attendere significhi esporsi al rischio crescente di un attacco simultaneo e coordinato su più fronti. Israele ha scelto di colpire il centro nevralgico della minaccia, piuttosto che continuare a rispondere a ogni singolo colpo lanciato dalle sue periferie.
Si tratta di una dottrina già conosciuta nella storia militare israeliana, quella della deterrenza attiva, che ha come obiettivo quello di dissuadere i nemici con la forza dell’esempio e non solo con la diplomazia. Ma oggi, questa dottrina assume un senso nuovo: non è solo prevenzione, è una misura disperata per evitare il collasso del sistema di difesa sotto la pressione simultanea di più attori armati.
I rischi di un’escalation fuori controllo
Tuttavia, un’azione difensiva non è automaticamente priva di conseguenze geopolitiche. I raid israeliani sul territorio iraniano comportano un rischio concreto di escalation regionale, soprattutto se colpiscono personalità chiave o infrastrutture sensibili come gli impianti nucleari. L’Iran ha già risposto con il lancio di droni e minaccia ulteriori ritorsioni.
Siamo dunque di fronte a un equilibrio fragile, in cui ogni azione di autodifesa rischia di trasformarsi in un catalizzatore del caos. Ma ignorare il punto di vista israeliano, che vede nella minaccia iraniana non un concetto astratto ma un fatto tangibile e costante, significa rimuovere metà della complessità.
Una guerra asimmetrica che interpella l’Europa
L’Unione europea, che finora ha assunto un ruolo diplomatico secondario, è chiamata a riconoscere questa dimensione. Israele resta un alleato strategico per l’Occidente, ma non per questo immune da critiche o da controlli. Tuttavia, è fondamentale che il dibattito pubblico europeo non cada nella trappola della semplificazione: parlare di “attacco israeliano” senza analizzare la rete di minacce coordinate e finanziate dall’Iran significa sbilanciare l’interpretazione dei fatti.
Serve una visione che sappia tenere insieme i due piani: da un lato, la necessità di contenere l’escalation e rilanciare un percorso diplomatico; dall’altro, la legittima esigenza di sicurezza di uno Stato che si sente accerchiato e minacciato non da un’ideologia, ma da armi puntate contro la sua popolazione civile.
Conclusione: comprensione non è giustificazione
Comprendere le ragioni dell’attacco israeliano non significa giustificarne ogni esito, ma piuttosto riconoscere il contesto multilivello in cui questo conflitto si muove. È una guerra di nervi, logorante, in cui la distinzione tra offensiva e difesa si fa ogni giorno più sottile. In questo spazio grigio, servono leadership responsabili, capacità di lettura profonda e strumenti di pressione diplomatica che vadano oltre la ritualità delle condanne verbali.
Se davvero vogliamo evitare una guerra regionale di lunga durata, dobbiamo prima di tutto guardare in faccia la complessità.