Gommoni, salvagenti e incursioni di finti civili: come Pechino provoca Taiwan

Guido Gargiulo
01/06/2025
Frontiere

Nelle ultime settimane, le coste e le spiagge di Taiwan si sono trasformate in un palcoscenico di episodi tanto insoliti quanto strategicamente significativi. Ma cosa sta realmente accadendo? Uomini a bordo di gommoni, galleggianti improvvisati o semplici salvagenti hanno tentato di attraversare lo Stretto di Taiwan partendo dalle coste cinesi. A un primo sguardo potrebbe trattarsi soltanto di cittadini in fuga, spinti dalla disperazione. Eppure, osservando con maggiore attenzione, questi eventi rivelano una trama più articolata, una strategia lucida e metodica. Pechino sta infatti mettendo alla prova nuove tecniche di penetrazione, misurando la reattività taiwanese e al contempo esercitando una pressione psicologica costante: silenziosa, ma inesorabilmente crescente.

Le autorità di Taipei parlano apertamente di guerra cognitiva

Le autorità di Taipei parlano senza esitazioni di una vera e propria guerra cognitiva: una strategia pensata per instillare insicurezza nella popolazione e costringere il governo locale a deviare risorse e attenzione verso minacce imprevedibili, spesso difficili – se non impossibili – da intercettare in anticipo con i normali sistemi radar. In questo contesto, anche dettagli apparentemente marginali, come l’assenza di scottature solari o la quantità di carburante residuo nei gommoni dei “naufraghi”, diventano elementi di indagine, sintomo di un’operazione tutt’altro che improvvisata.

La logica della “zona grigia” secondo Pechino

Il ricorso ad operazioni ibride, che si collocano deliberatamente al di fuori della convenzionale distinzione tra pace e guerra, è ormai una costante della proiezione strategica cinese. La stessa dottrina militare cinese fa ampio uso dell’espressione “tattiche della zona grigia” per definire interventi sottotraccia, capaci di erodere la volontà dell’avversario senza ricorrere ad un conflitto aperto. Agire nell’ombra, creare confusione, approfittarne: è la tattica preferita da Xi Jinping.

È in questo schema che si inseriscono le “invasioni” dei cittadini cinesi. Singoli episodi che, presi isolatamente, potrebbero sembrare trascurabili, ma che nel loro ripetersi sistematico contribuiscono a generare un senso di assedio permanente. Un messaggio implicito ma chiarissimo: la Cina è ovunque, e Taiwan non può permettersi di abbassare la guardia.

La componente simbolica, le bandiere cinesi poste su territorio taiwanese

Alcuni di questi episodi sono stati accompagnati da atti di sfida diretta. Un uomo ha affermato di aver attraversato lo Stretto di Taiwan in gommone per piantare la bandiera della Repubblica Popolare su una spiaggia dell’isola. Nonostante le incertezze sulle modalità reali dell’operazione, tra sospetti di aiuti locali e video forse registrati in loco, il gesto ha avuto un impatto mediatico immediato, trasformando un’incursione di basso profilo in un caso di propaganda virale.

Anche in questo caso, l’intento non era militare in senso stretto, ma psicologico e simbolico. L’obiettivo? Dimostrare che la Cina può colpire dove e quando vuole, con chiunque. Un’arma tanto efficace quanto economica.

L’ambiguità come arma di Pechino

Tutto ciò, intanto, avviene mentre Pechino prosegue il rapido ammodernamento delle sue forze armate, testando in mare la nuova portaerei Fujian e incrementando la frequenza delle manovre aeronavali in prossimità delle acque contese. Nelle ultime settimane si sono registrati numerosi avvicinamenti tra elicotteri cinesi e velivoli di forze “nemiche” non meglio specificate, in un’escalation di tensioni che, pur rimanendo sotto la soglia dello scontro diretto, non possono più essere liquidate come semplici esercitazioni. Di fatto, si tratta di vere e proprie tattiche che anticipano una possibile invasione di Taiwan.

Pechino agisce su più livelli. Mostra i muscoli, sì, ma affina anche le armi dell’ambiguità. Non serve un’invasione su larga scala per erodere la sicurezza taiwanese; basta una serie di piccole incursioni, sistematiche e imprevedibili, per tenere l’isola in uno stato di allerta permanente. E così, anche civili e gommoni finiscono per diventare parte integrante di una guerra ipotetica da scatenare contro Taiwan.

Il rischio dell’abitudine e dell’erosione interna

Taipei è consapevole di non poter sostenere a lungo una difesa esaustiva su ogni metro di costa, soprattutto di fronte a minacce che assumono sembianze civili. La strategia della “porcupine defense” – colpire duro l’invasore al momento giusto – resta la più realistica, ma rischia di essere logorata da operazioni che non prevedono un’invasione formale, bensì una lenta infiltrazione nella percezione collettiva della vulnerabilità.

Per ora, la risposta è consistita nell’aumento dei pattugliamenti, nell’installazione di nuovi sistemi di sorveglianza termica e in un più stretto coordinamento tra l’agenzia per l’immigrazione e le forze armate. Ma il tempo gioca a favore di chi ha iniziativa, risorse e una strategia a lungo termine. E la Cina, oggi, sembra avere tutte e tre le carte in mano. Taiwan ha bisogno di agire e reagire. E non è facile quando hai di fronte un avversario come Pechino, che pensa ossessivamente a invaderti.




Consiglio di lettura: “Scemi di pace”.
Il libro di Marco Setaccioli nasce come vera e propria reazione “allergica” ad una narrazione inaccettabile ed illogica, con l’obiettivo dichiarato di sfatare, prove alla mano, i tanti miti della propaganda putiniana e di contestare la tendenza, che per Travaglio&soci è ormai un tratto distintivo, di spacciare per fatti le sue discutibili (e confutabili) opinioni.