Putin si prepara a rendere eterna la sua guerra all’Occidente

La Russia rafforza i presidi militari alle frontiere occidentali, a partire da quelli con la Finlandia, dando così seguito alle minacce formulate all’indomani della scelta del paese scandinavo di uscire dallo stato di proverbiale neutralità per entrare a far parte della NATO.
Ma anche confermando che la feroce invasione dell’Ucraina non è solo un episodio di regolamento di conti storico-culturale tra paesi confinanti, bensì la cruenta tappa di una deriva fatta di ossessioni imperiali e paranoie securitarie.
Chi vede per l’Europa un futuro di normalizzazione dei rapporti con Mosca, ammesso che il conflitto attuale non termini con una macroscopica (ed inaccettabile per l’Occidente) lesione del diritto internazionale, ignora i segnali che, almeno da vent’anni, cioè da quando è stata chiara l’intenzione di Putin di mettere radici nei saloni dorati del Cremlino, arrivano da un regime che ha consapevolmente scelto di volgere lo sguardo indietro, verso il compianto impero, anziché costruire la moderna nazione russa, mai nata dalle ceneri dell’URSS.
Americani ed europei hanno visto quello che volevano vedere
Terra, lingua, cultura e moneta sono elementi comuni ad ogni entità. Ma quando la traiettoria nelle relazioni internazionali si inclina sotto il peso dell’istinto di dominazione, controllo, limitazione della sovranità altrui, si intraprende un percorso disseminato di guerra.
Qualcuno obietterà che anche gli Stati Uniti sono stati impero. Un impero costruito sulla forza militare, economica e su quella politica che da queste derivava.
Ma è stato anche un impero capace di autocriticarsi e alla fine di autocensurarsi, al punto di abbandonare, per volontà bipartisan, la logica cinica e supponente dell’esportatore di democrazia. Talvolta con risultati tragici, come ci ha insegnato la ritirata dall’Afghanistan, concepita dal repubblicano Trump ed attuata dal democratico Biden.
Nel frattempo un po’ a tutti ha fatto comodo non vedere cosa accadeva nella Russia post-Eltsin.
Ai più bastava dipingere lo sconosciuto funzionario del KGB salito al potere negli ultimi giorni dello scorso millennio come un esponente qualunque di una mediocre classe di politicanti corrotti, arricchitasi con le caotiche privatizzazioni delle aziende di stato degli anni ‘90, sottovalutando la spregiudicatezza che era già chiara dal cinismo criminale con il quale aveva organizzato gli auto-attentati dinamitardi, che poi avevano giustificato la seconda guerra cecena, con la quale il futuro zar inaugurò la sua carriera al Cremlino.
Non vedere fece comodo agli USA, la cui attenzione era in un primo momento rivolta all’Indopacifico e soprattutto al Medio Oriente, anche sotto la spinta emotiva dell’11 settembre. E che più di recente non avrebbero potuto accettare l’idea di una nuova guerra fredda, la quale avrebbe impedito al paese guida delle democrazie di pianificare la rinuncia alla stella di sceriffo del mondo libero, cui l’attuale amministrazione americana ha, con tutta evidenza, impresso un’accelerazione.
Ma fu comodo anche per l’Europa a guida tedesca, troppo impegnata a preservare il proprio benessere costruito su gas e petrolio russi e sugli affari multimiliardari con gli oligarchi che popolavano la corte d Putin e ne avevano cementato il potere.
L’invasione dell’Ucraina del 2022, ancor più dell’annessione della Crimea del 2014, sotto questo punto di vista è stata una sorta di sveglia, che ha reso palese quanto la Russia, a sentirsi impero, appunto, non abbia mai veramente rinunciato e veda anzi il proprio futuro come una pericolosa continuazione di quella che fu l’Unione Sovietica. Non quella di Gorbaciov, sia chiaro, ma quella di Stalin.
Una versione immaginaria della Seconda Guerra Mondiale
Lo si vede dalla roboante e pomposa retorica con la quale il regime attuale esalta la vittoria contro Hitler e commemora i milioni di morti che quella vittoria costò. Omettendo però, in questa ricostruzione, alcuni non trascurabili dettagli.
Il primo di questi è che mentre l’Europa combatteva il nazismo, l’URSS si limitava a combattere i nazisti, cioè i traditori di quel patto Molotov-Ribbentrop con il quale Mosca e Berlino avevano progettato di spartirsi l’Europa.
La differenza, a lungo ignorata, non è di poco conto, perché è quella che ha poi delineato gli opposti destini dell’Ovest e dell’Est del vecchio continente, cioè di chi ambiva a costruire democrazia sulle macerie della guerra e chi invece sognava solo di rimpiazzare una tirannia con un’altra.
Quei morti, celebrati da russi e russofili, non sono quindi stati un sacrificio per la libertà dell’Occidente, ma un tributo di sangue alla costruzione di un Reich d’Oriente, che fu poi legittimato a Yalta.
E qui si arriva alla ragione per la quale la Russia è destinata a rimanere un pericolo per l’Europa democratica, che è rinvenibile soprattutto nel modo in cui viene gestita la memoria collettiva di quelle pagine della loro storia.
Troppo spesso ci si illude infatti che Vladimir Putin sia una sorta di incidente, dopo il quale tutto tornerà ad una qualche forma di normalità. Ma basta guardare ai fatti degli ultimi anni di vita dell’URSS ed al decennio che ne seguì, per comprendere che è in realtà il prodotto del fallimento del blando tentativo di democratizzare il paese.
È l’espressione di quel pezzo di società che non ha mai smesso di volere il ritorno dell’impero sovietico, il cui crollo per lo stesso Putin è stata “la più grande tragedia del Ventesimo Secolo”.
Una volta salito al potere il nuovo presidente ha, non a caso, puntellato e rafforzato proprio quel sentimento, alimentando elementi nostalgici attraverso il controllo dell’informazione, la riscrittura dei libri di testo, la realizzazione di monumenti, musei, memoriali e grandi cerimonie, ma anche mettendo al bando organizzazioni che potessero contestare la narrazione governativa.
La storia insegna che simili erosioni delle libertà e la costruzione di dittature di fatto, per essere socialmente accettate, necessitano di un nemico, la cui sconfitta richiede misure draconiane che sono in realtà funzionali al consolidamento del potere.
Nemici di Mosca erano ad esempio i ceceni, che compivano attentati, in realtà autoprodotti, contro la Russia nel ‘99.
Lo erano i georgiani che secondo il Cremlino perpetravano massacri in Abkhazia e Ossetia del Sud, regioni per questo occupate nel 2008. Lo erano gli ucraini, per i quali sono state inventate le stragi dei russofoni del Donbass e le oppressioni di quelli in Crimea, per autorizzare gli interventi militari del 2014. E tanto più lo sono oggi, che, progettando di aderire alla NATO, nei deliri di Putin, si preparano ad attaccare e distruggere la Russia.
Proprio l’inaudita ferocia nella conduzione del conflitto in Ucraina, tre anni di morti e devastazioni, ci dicono che oggi il nemico dei russi, di tutti i russi, siamo noi.
Quell’Occidente Globale il cui benessere e le cui democrazie sono il frutto di quella che, stando ai rancori dello zar, è l’immeritata vittoria della guerra fredda.
Quell’Occidente del quale la propaganda di stato parla con disprezzo e che il governo ormai non fa mistero di voler contrastare con ogni mezzo, nell’ambito di una guerra ibrida della quale ci siamo accorti solo quando ha sconfinato sul piano militare, ma che già da anni veniva condotta in ambito economico, politico e informativo. Una guerra che punta alla disgregazione delle nostre società e al nostro annientamento, come parte del risarcimento dell’ingiusta umiliazione patita da un impero che non si sarebbe mai dovuto disgregare.
Monumenti e repressione
L’utilizzo politico della memoria, appunto, di questo grande piano è non solo la spia più evidente, ma anche la prova di come il regime di Putin abbia fatto della “rivincita” (o piuttosto alla vendetta) un obiettivo esistenziale della nuova Grande Russia, sino a farne una missione di respiro transgenerazionale, cui tutto il popolo russo deve contribuire, stabilendo così più di un punto di contatto con l’eurasiatismo ultranazionalista propagandato da quell’Alexander Dugin, solitamente indicato come il filosofo dello zar.
Non è certamente un caso che sul territorio della Federazione stiano continuando ad apparire, con il placet del Cremlino, monumenti dedicati a Stalin (ultimo in ordine di tempo un bassorilievo nella fermata Taganskaya della Metro di Mosca), probabilmente il più grande assassino della storia dell’umanità, che si è tornati a celebrare dopo un lungo lavoro di ripulitura del suo sterminato curriculum criminale.
Così come ha un senso la messa fuori legge della ONG Memorial, premio Nobel per la pace 2022, il cui compito era proprio quello di tenere viva la memoria degli orrori sovietici a partire dallo scempio dei gulag. Gran parte dei suoi archivi ora non sono più accessibili ed i siti che gestiva, come il poligono di fucilazione di Butovo, sono ora gestiti dalla fedelissima chiesa ortodossa del patriarcato di Mosca, che ne sta edulcorando la storia, in linea con le esigenze del regime.
Intanto sui media nazionali imperversano revisionisti e negazionisti, che ormai fanno scuola in tutta Europa, Italia inclusa. Non è difficile imbattersi in giornalisti, politici ed opinionisti disposti, ad esempio, a declassare ad un mero esempio di disorganizzazione l’immane tragedia dell’holodomor (6 milioni di ucraini sterminati per fame tra il 1932 ed il 1933) o a negare la responsabilità del politburo nella strage di Katyn (22.000 tra ufficiali ed intellettuali polacchi che si opponevano alla comunistizzazione del paese, trucidati nel 1940), che già durante il processo di Norimberga le autorità sovietiche avevano cercato invano di attribuire ai nazisti.
Se si uniscono i puntini, si ottiene un disegno chiaro e preoccupante, che l’Europa per prima non può permettersi di continuare ad ignorare.
La società russa viene educata non solo a credersi predestinata ad essere impero ma anche a ritenere che i celebratissimi milioni di morti sovietici gettati nella fornace della “Grande Guerra Patriottica” le abbiano fatto maturare una sorta di enorme credito nei confronti di un Occidente, che dunque deve alla Russia gran parte di ciò che ha.
La sapiente opera di rimozione dei crimini sovietici ed il ferreo controllo dell’informazione che limita la conoscenza delle malefatte russe dell’ultimo quarto di secolo impediscono a quella stessa società di comprendere perché quel credito in realtà non esista affatto e la ragione per la quale al contrario la Russia sia ormai considerata uno stato terrorista e criminale.
La cupola che governa il Cremlino sta coltivando in provetta il risentimento del popolo russo verso un Occidente dipinto come ingrato ed inspiegabilmente russofobo. Vladimir Putin, che nel 2012 ha inventato il “Reggimento immortale”, invitando i russi a portare i ritratti dei loro cari che hanno combattuto contro i nazisti, intende così rendere immortale anche la sua guerra, ed essere certo che prosegua dopo di lui. Assicurandosi che il popolo, in nome di quella guerra, scelga un nuovo Putin o, peggio, un nuovo Stalin.