La bad company della vecchia UE e la costruzione della nuova Europa

Per parecchi anni si è discusso di un’Ue a più velocità, intendendo una differenza di velocità dei diversi Paesi nella stessa direzione, quella di una maggiore integrazione e di un implicito rafforzamento dei suoi presupposti costituzionali. Le minori o maggiori velocità erano intese rispetto ai tempi di adempimento di un processo – quello della cessione di sovranità a istituzioni comuni per obiettivi politici, economici e strategici condivisi – che all’interno dell’Ue molti gruppi politici (non solo di opposizione) ora contestano esplicitamente.
Non è più, cioè, in questione il calendario dell’integrazione, ma il suo oggetto. Non è più in discussione la velocità, ma la direzione. Per come è costruita, sintetizzando in modo sommario le tecnicalità dei Trattati, l’Ue non impedisce affatto di procedere a differenti velocità nella stessa direzione, ma non consente di procedere, con velocità altrettanto accelerate, in direzioni diverse o perfino opposte su materie che implicano, per la loro stessa natura, una prospettiva comune e massimamente quella della difesa dell’architettura della costruzione europea: stato di diritto, società aperta, divisione dei poteri e piena integrazione giuridica come corrispettivo del sistema di solidarietà socio-economica.
Il meccanismo dei trattati non ci salva dalle quinte colonne nemiche
È quindi ragionevole ipotizzare che per salvare il senso e la sostanza stessa dell’Ue occorrerà trovare il modo per escludere i Paesi “secessionisti” – quelli che ad esempio oggi fiancheggiano e sostengono l’aggressione di Putin a Kyiv – dalla costruzione europea che sopravviverà a questa prova del fuoco rappresentata dalla guerra all’Ucraina e che questa esclusione – se, come è ipotizzabile, il novero dei Paesi “pacifisti” non diminuirà e se mai si amplierà (non comunque troppo significativamente, secondo ragionevoli previsioni) – comporterà una profonda revisione dell’architettura europea.
Continuare a pagare l’Ungheria o la Slovacchia o in futuro forse la Romania perché facciano le quinte colonna della Russia dentro le istituzioni dell’Ue sarebbe un esempio di cretinismo burocratico suicidario. È illusorio pensare di attivare gli strumenti di maggiore integrazione previsti dai Trattati – ad esempio le cooperazioni rafforzate e le cooperazioni strutturate permanenti in materia di difesa e sicurezza – in un quadro dominato di diritto o di fatto dal principio dell’unanimità e pregiudicato dalle divisioni fondamentali tra alcuni Paesi membri perfino sulla difesa del paradigma liberal-democratico.
L’esempio dei willing. Cercare altri schemi per rifare l’Europa
Come sta avvenendo con la coalizione di volenterosi, che contende il destino dell’Ucraina al patto scellerato tra Trump e Putin, la “nuova” Europa va costruita in parallelo a quella “vecchia”. Non è certamente una cosa facile trasformare l’Ue, sui temi che contano, in una bad company che propizi la nascita di un’Unione emancipata e depurata dal potere di veto dei nemici infiltrati nei gangli del suo funzionamento. Ma per quanto sembri utopico e perfino distopico, oggi l’Ue non ha alcuna possibilità di inverarsi nei propri principi e valori se non restringendosi, su tutte le questioni che contano, a un nucleo di Paesi che condividano istanze fondamentali di libertà.
Costruire un’altra Europa, letteralmente
Se l’Ue di oggi, da cui non si può buttare fuori nessun Paese, neppure se instaura un’autocrazia plebiscitaria (come l’Ungheria), non troverà il modo di difendersi da questo contagio non potrà neppure trovare il modo di sopravvivere. Da questa trappola non bisogna buttare fuori nessuno, ma bisogna uscirne, svuotandola di senso e di risorse. Oggi la sfida europeista è quella di accettare che l’Ue che c’è sia solo la bad company dell’Ue che sarà e che per tornare a essere “qualcosa” essa debba fuoriuscire, con uno sforzo di fantasia istituzionale e di coraggio politico non impossibile, da questa condizione penosa che la costringe a non essere “niente”.