Come gli Emirati Arabi Uniti stanno diventando protagonisti nelle relazioni globali

Sofia Fornari
07/05/2025
Frontiere

In un mondo segnato dalla rottura dell’ordine internazionale post-guerra fredda e dalla crisi crescente del multilateralismo, emergono nuovi attori capaci di colmare i vuoti lasciati dalle potenze tradizionali. Tra questi, gli Emirati Arabi Uniti stanno guadagnando un ruolo sempre più rilevante come protagonisti discreti ma efficaci delle relazioni istituzionali globali. Nel silenzio apparente della diplomazia tradizionale, infatti gli emiratini stanno riscrivendo il proprio ruolo nel sistema internazionale. Non più (solo) potenza petrolifera né semplice mediatore regionale, Abu Dhabi si propone oggi come nodo strategico di una rete globale di relazioni istituzionali fondate su pragmatismo, multilateralismo e capacità di anticipare i nuovi fronti della geopolitica, come la sicurezza digitale e la diplomazia tecnologica.

La strategia globale: oltre il petrolio

È in questo contesto che va letto il recente accordo siglato con l’Ecuador il 2 maggio 2025: un Memorandum d’intesa sulla cybersicurezza che definisce quattro aree di cooperazione — dall’armonizzazione legislativa alla formazione digitale. Apparentemente periferico, l’accordo con Quito rappresenta in realtà un tassello di una strategia ben più ambiziosa: costruire una rete diplomatica alternativa ai circuiti tradizionali, estesa e influente, che includa anche attori emergenti dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia.

Perché proprio l’Ecuador? Perché, come già dimostrato in precedenti collaborazioni con Paraguay, Uruguay e Marocco, gli Emirati cercano di espandere la propria influenza tecnologica oltre gli alleati classici. Non si tratta più solo di firmare accordi economici o attrarre investimenti, ma di esportare modelli operativi, competenze e una precisa visione di governance digitale. Ogni memorandum diventa così uno strumento di soft power, una leva per affermare un’identità statuale moderna, affidabile e autonoma.

In questa cornice si inserisce – per fornire un altro esempio – anche il piano congiunto sull’intelligenza artificiale siglato tra Italia ed Emirati Arabi Uniti, che prevede cooperazione in ricerca, trasferimento tecnologico, etica dell’IA e sviluppo industriale. Si tratta di un’intesa strategica che rafforza non solo i legami bilaterali, ma anche la proiezione internazionale di Abu Dhabi come hub globale per l’innovazione. L’accordo con l’Italia, Paese europeo con una solida tradizione ingegneristica e accademica, testimonia la volontà emiratina di posizionarsi al crocevia tra Europa, Asia e Medio Oriente nel grande gioco tecnologico del XXI secolo.

Neutralità attiva e diplomazia multilivello

Questa diplomazia digitale si inserisce in un più ampio riposizionamento del Golfo Arabo come nuovo hub della politica internazionale. Abu Dhabi, Riad e Doha hanno adottato un approccio che potremmo definire di “neutralità attiva”, mantenendo relazioni aperte con attori anche tra loro ostili. Gli Emirati, ad esempio, sono in grado di firmare nello stesso giorno un accordo commerciale con l’Ucraina — la ratifica del Comprehensive Economic Partnership Agreement, finalizzato a garantire libero accesso reciproco ai mercati — e inviare il ministro dell’Interno Saif bin Zayed Al Nahyan a Mosca per firmare intese in materia di sicurezza, protezione dell’infanzia e dialogo interreligioso. Due gesti simultanei, che riassumono plasticamente l’abilità emiratina nel tenere insieme interlocutori in aperta opposizione tra loro.

Il valore degli Emirati come piattaforma di dialogo sta dunque nell’essere uno spazio terzo, non neutrale ma disponibile, dove si possono esplorare opzioni quando le sedi tradizionali si sono esaurite. A differenza delle potenze storiche, Abu Dhabi non pretende di arbitrare ma di ospitare. Lo fa con discrezione, attraverso infrastrutture materiali (come hub logistici, porti e zone franche) e immateriali (forum interreligiosi, grandi eventi sportivi, intese culturali). Lo fa anche con mezzi sofisticati di influenza, come la finanza sovrana (Mubadala, ADQ) e una narrazione che unisce modernità e identità islamica in chiave globale.

Tutto ciò rappresenta, ovviamente, anche una forma di ambiguità: la disponibilità a dialogare con tutti può facilmente essere interpretata come opportunismo, o addirittura come un modo per eludere responsabilità e schieramenti in scenari di conflitto. Ma è proprio in questa ambivalenza — tra apertura e calcolo strategico — che si gioca oggi la forza diplomatica degli Emirati.

Il modello emiratino dipende ancora in larga misura dalla rendita energetica, e l’apertura diplomatica è resa possibile da una fase di debolezza o stallo delle grandi potenze. Ma è proprio in questa intercapedine che Abu Dhabi si è inserita, costruendo legami laterali, diversificati, resilienti. Se il mondo si frammenta in blocchi e sfere d’influenza, gli Emirati si propongono come connettori.

In definitiva, gli Emirati Arabi Uniti non stanno semplicemente allargando la propria proiezione internazionale: stanno sperimentando una forma nuova di protagonismo, fondata sulla capacità di tessere, connettere e far dialogare. In un’epoca in cui si erigono muri, loro costruiscono corridoi. E, forse, anche qualche ponte.