Sul 7 ottobre. E sul nostro dovere di difendere l’esistenza di Israele
Il massacro del 7 ottobre 2023 non è stato soltanto una tragedia regionale. È stato una frattura di civiltà. L’attacco di Hamas contro Israele — un atto di crudeltà calcolata, non di resistenza — ha costretto il mondo a confrontarsi con una verità che la diplomazia benpensante ha tentato a lungo di occultare: Israele non sta semplicemente combattendo per la propria sopravvivenza, ma per la tenuta morale dell’Occidente.
Per decenni le società occidentali hanno trattato la sicurezza di Israele come una questione strategica, da “gestire” o “bilanciare” con le ragioni della pace. Ma gli eventi di quel giorno hanno mostrato che non si tratta di proporzionalità, bensì di principio. Lo sterminio deliberato di civili, il rapimento di bambini, la celebrazione della morte non appartengono al linguaggio della politica: rappresentano il rifiuto stesso della civiltà.
Nel mondo occidentale si è diffusa, dopo quella giornata, una perversa inversione morale. Le stesse società che un tempo avevano promesso “mai più” hanno cominciato a cercare un’equidistanza impossibile, come se la difesa di una democrazia potesse mai essere posta sullo stesso piano morale del jihadismo e della sua glorificazione del martirio. Questa deriva intellettuale — questa perdita di gerarchia morale — è forse il sintomo più grave del relativismo postmoderno in cui siamo immersi.
Israele oggi è il banco di prova della nostra capacità di chiarezza morale.
Difendere il diritto di Israele a esistere e a difendersi non è un favore al popolo ebraico: è un atto di coerenza con i principi fondanti dell’Occidente — la sovranità, la dignità individuale, la legittima difesa razionale. Nessun altro Stato sarebbe costretto a subire migliaia di razzi o la presenza di organizzazioni che dichiarano apertamente di volerlo distruggere. Eppure, Israele continua a essere ammonito alla “moderazione” da capitali europee che da tempo hanno delegato la propria sicurezza ai contribuenti americani.
La coscienza selettiva dell’Europa rivela una malattia più profonda: la tendenza a scambiare la comodità per virtù, e la neutralità per saggezza. Ma la neutralità di fronte al terrore non è saggezza: è complicità. La lezione del 7 ottobre è che la passività morale non attenua la violenza — la alimenta. Come osservava Václav Havel: “la tragedia della politica moderna non è che il male sia forte, ma che il bene abbia smesso di credere in sé stesso.“
Esiste poi una dimensione geopolitica di questa cecità morale.
Un Israele indebolito non porterebbe pace: incoraggerebbe l’Iran, destabilizzerebbe il Mediterraneo orientale e manderebbe un segnale devastante ai regimi autoritari del mondo, dimostrando che l’Occidente non ha più né coerenza né volontà. Al contrario, un Israele forte garantisce equilibrio, deterrenza e un ordine regionale che — pur fragile — resta ancorato a norme e valori di matrice occidentale.
Difendere l’esistenza stessa di Israele, dunque, non è un atto di filantropia politica, ma di interesse illuminato. È la difesa di una frontiera in cui la civiltà si confronta con il nichilismo. Sostenere Israele significa affermare che l’Illuminismo, con la sua fede imperfetta ma tenace nella ragione e nella libertà umana, ha ancora dei difensori.
La memoria del 7 ottobre non deve ridursi alla commemorazione. Deve servire da bussola morale. Perché se perdiamo la capacità di distinguere tra chi costruisce e chi distrugge, tra chi difende la vita e chi glorifica la morte, non avremo solo smarrito il senso della solidarietà: avremo smarrito il senso stesso dell’Occidente.








